cos’è un respiro?

Tra gli elementi preziosi della pratica di consapevolezza c'è il respiro: oggetto di concentrazione privilegiato e dato per scontato. Mettersi accanto al respiro comunque lo si trovi senza imporgli un ritmo. Imparare a stare con quello che c'è anche quando ciò che osserviamo non è gradevole, dandosi via via strumenti utili per compiere le traversate.

Un Maestro tibetano disegnò un giorno per i suoi studenti, sul bianco di una lavagna, il segno stilizzato di un piccolo uccello e chiese: “Cos’è?”. Nacquero tante diverse risposte. Tutte decifravano un piccolo segno. In molti risposero: “Un uccello”. E il Maestro, continuando a scuotere sorridendo la testa, rispose: “È un cielo vasto e in questo momento sta passando un uccello”.
[Chandra Livia Candiani – Il silenzio è cosa viva]

Ci caschiamo in tanti. E potremmo anche voler replicare: “Be’ ma se appena prima si è disegnato qualcosa, è evidente che l’elemento nuovo cattura l’attenzione”.
Ovviamente sì, oppure ovviamente no: non è stato chiesto: “Cos’è questo segno?” ma soltanto: “Cos’è?”.
La realtà è che ci facciamo condizionare.
L’elemento pre-esistente semplicemente non l’abbiamo preso in considerazione: è stato chiesto “Cos’è?” subito dopo aver disegnato un tratto, il nuovo, e questo ha rappresentato per noi un condizionamento. Viceversa l’esistenza dello sfondo già lì da prima lo ha fatto dare per scontato, ne ha fatto perdere il significato. Alla fine, non lo notiamo nemmeno più.

Normalmente non facciamo caso al respiro.

Inspirare, espirare. Esistono da sempre. Ci saranno per tutto il tempo in cui staremo qui, atti fondamentali per la nostra vita ai quali tuttavia diamo raramente importanza. Potremmo dire appunto che li diamo per scontati, che non ci badiamo.
Eppure, il nostro respiro è quel cielo vasto, è l’elemento attraverso cui l’uccello in volo può passare.
Il respiro è l’elemento attraverso cui la nostra vita si dipana.

Thich Nhat Hanh ci ricorda che il respiro è l’elemento di connessione tra il corpo e la mente.
A me piace vederlo come un filo che tiene insieme i grani di una collana. I grani sono tante cose in noi: le sensazioni fisiche, i pensieri, le emozioni. Il filo ha un senso concreto: è ciò che collega e rende tutte quelle parti interdipendenti, per diverse che sono, trovano in esso ciò che sta bene a tutte.
Il respiro ha in più un ché di magico: sa svolgere funzioni opposte pur di aiutarci perché è ciò che alterandosi rispetto a un ritmo neutro ci fa capire che sta accadendo qualcosa ma al tempo stesso, è uno strumento con cui, lavorandoci, possiamo tornare a una situazione di maggiore tranquillità (tecniche di respirazione). Portando infatti la concentrazione sul respiro, andiamo più facilmente nella possibilità di gestire.

La pratica di piena presenza è come la navigazione della vita, dunque è fatta di aspetti piacevoli e non piacevoli e non solo negli ampi cicli, anche nella singola giornata o nella singola ora ingrandendo sempre più.
Il tema è stare con le cose così come sono.
È una frase che si sente spesso quando si comincia a impratichirsi con un lavoro di consapevolezza. Subito a qualcuno potrà venir da dire: “Sì lo so: vuol dire accettare”.
A me, partire dall’accettazione, fa l’effetto del gesso sulla lavagna, perché attribuisco alla parola accettazione un lieve senso di passività ottenuto per giunta sotto sforzo. Sono però consapevole che è qualcosa che collego io a quel termine.

Lo stare dunque dove va a pescare? Cosa significa in concreto stare con quello che c’è? Per me è tutto l’esperire possibile. Vederlo. Annusarlo. Sentirlo con le orecchie. Sentirlo con il gusto. Sentirlo con il Corpo. I buddhisti ci ricordano che abbiamo sei sensi, c’è anche la mente, che poi in realtà è mente-cuore. La prima volta che ho sentito dire della mente-cuore, del sesto senso (non inteso come l’intuizione a cui spesso ci si riferisce nel mondo occidentale), ho pensato che fosse così logico. Non posso non notare come contemplare tra i sensi la mente faccia un’enorme differenza, è come dire: da dove mi posiziono a osservare il mondo?
E allora forte di questo “senso in più” che avevo poca consapevolezza di possedere nonostante la sua forte presenza, provo a esaminare di nuovo la frase di partenza.
Forse stare con quello che c’è mi chiede di vederlo. Come essere disposti a osservare le carte in tavola, avere voglia di girarle tutte, non una esclusa. Le guardo per vederle tutte, anche quelle che non vorrei trovare. Ed ecco che entra in gioco per la prima volta il senso della mente (mente-cuore). Cosa mi accade mentre guardo tutte le carte? Registro, non emetto giudizi. Prendo nota, scrivo qualche etichetta. Passo oltre.
Annuso quello che c’è: se dovessi dare un odore, di cosa saprebbe nel naso? Ed ecco che qualcos’altro esce. Quanto è buona? Quanto è fetida la situazione? Quanto in fretta mi abituo alla puzza, se c’è?
Qual è il suono. È un rumore? Una musica? Mi stride nelle orecchie? Se stride, quanto velocemente non lo noto più? Anche questo è interessante perché forse sussurra qualcosa di interessante.
Mi verrebbe di assaggiare questa esperienza? Di entrarci dentro più intimamente? La sento nettare o c’è del velenoso? È qualcosa a metà strada tra questi estremi? Se ha un cattivo sapore, quanto è un ricordo lontano e quanto lo sento invece ora “mangiabile”? Certo, sono diverso da quell’allora lontano…me ne accorgo?
Lo tocco? O la sua consistenza mi disgusta? Sto dando la mano a quello che c’è o nemmeno mi avvicino?
Ecco ogni volta che faccio questo giro c’è un’occasione di sentire anche con il Corpo. Mi dà sensazioni, emozioni, perciò anche pensieri, interpretazioni che, se tenute ben poggiate sulla base sicura dell’equanimità, del mio sguardo oggettivo, imparziale, mi aiutano a far affiorare spunti, risposte, caratterizzazioni. Mi trovo meno tra le mani una materia incognita e sento invece germogliare la mia consapevolezza.
Mi è venuto di provare a “calare” l’espressione di quello stare con quello che c’è nel nostro sistema sensoriale. È uscito questo itinerario.
Chissà, forse ha senso farlo, soprattutto se all’inizio ci risulta scomodo stare con quello che c’è. Sentiamo qualche normale ma spigolosa resistenza, sono le nostre comprensibili difficoltà. Il percorrere tratti impervi può far decidere per l’abbandono, allora chissà, allungare il giro con un passaggio tra i sensi, diluire un po’ forse aiuta: iniziamo a guardare le cose da lontano perché magari siamo tra quelli ai quali piace fare amicizia pian piano.

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